Al singolo condomino non serve acquisire l’atto di assenso degli altri per regolarizzare la canna fumaria che corre lungo la facciata dell’edificio. E ciò perché l’apposizione del condotto sul muro del fabbricato costituisce soltanto la mera esplicazione di una potere riconosciuto a ciascun proprietario esclusivo: il pari uso del bene comune di cui all’articolo 1102 c.c. È quanto emerge dalla sentenza 136/21, pubblicata dal Tar Calabria, sezione staccata di Reggio.

Cure e spese. Accolto il ricorso proposto dalla Srl che gestisce il ristorante: la società aveva chiesto l’annullamento in autotutela dello stop al manufatto, che serve a smaltire i soli vapori di scarico dell’esercizio pubblico ed è collocato in un pozzo di luce, dunque non risulta visibile dall’esterno. Il provvedimento viene annullato perché l’amministrazione non notifica all’impresa il preavviso di rigetto dell’istanza di regolarizzazione, che è invece necessario per consentire al privato di partecipare al procedimento facendo valere le proprie ragioni: la comunicazione risulta superflua soltanto quando la decisione dell’ente locale non potrebbe essere diversa nonostante l’apporto dell’interessato in termini di collaborazione.

Nel caso in esame, manca la prova che sia stata inviata la posta elettronica certificata con l’atto al gestore del locale, mentre non si può ritenere che il preavviso di rigetto sia costituito dalla nota pubblicata dal portale del comune dedicato alle imprese: lo sportello unico delle attività produttive, infatti, si limita a chiedere un’integrazione dei documenti, cioè proprio l’atto di assenso degli altri condomini all’installazione della canna fumaria. E dire che in quel momento il no dell’amministrazione è tutt’altro che scontato: la canna fumaria non altera il prospetto del fabbricato, mentre il privato ha il diritto di proporre le sue controdeduzioni sugli elementi posti a fondamento dell’ordine di rimozione: il principio vale anche quando il provvedimento «incriminato» ha natura vincolata. Senza dimenticare che i tecnici dell’Asl esprimono un parere positivo all’installazione. Ed è dagli stessi atti difensivi dell’amministrazione che emerge come il condotto che si sviluppa lungo la parete del pozzo di luce non impedisce l’apertura o la veduta della vicina finestra.

Ma soprattutto sbaglia l’ente locale laddove sostiene che la domanda di regolarizzazione non potrebbe essere accolta senza il consenso degli altri condomini: l’installazione del condotto integra un mero uso della cosa comune. E configura, in un modo ancor più specifico, una modifica della facciata dell’edificio conforme alla sua destinazione d’uso, che ciascun condomino può apportare a sue cure e spese. Il tutto a condizione che l’intervento non impedisca l’uso paritario della cosa da parte degli altri, non provochi un pregiudizio alla stabilità e alla sicurezza dell’edificio e non ne alteri il decoro architettonico; ipotesi, quest’ultima, che si verifica non quando mutano le originali linee architettoniche, ma se la nuova opera si riflette negativamente sull’insieme dell’aspetto armonico dello stabile.

Insomma: la realizzazione dell’opera soggiace soltanto ai limiti posti dall’articolo 1102 c.c., a meno che non sussistano limitazioni dettate da un regolamento condominiale di natura contrattuale. E se nel nostro caso l’ufficio pubblico avesse instaurato il contraddittorio in modo corretto l’impresa avrebbe potuto dimostrare che la canna fumaria non impedisce ai condomini l’uso comune del muro.

Volume tecnico
Di più. La canna fumaria del pub non va abbattuta, per quanto il locale dia fastidio ai condomini. È illegittima l’ordinanza di demolizione adottata dal Comune, spiega la sentenza 592/19 del Tar Salerno, perché l’impianto di trattamento di fumi e odori non rappresenta un manufatto che richiede il permesso di costruire, a meno che non modifichi il prospetto del fabbricato.

Dunque non può essere colpito da un provvedimento ex articolo 31 del testo unico per l’edilizia. Il sospetto, insomma, è che l’amministrazione locale sia voluta intervenire per tutelare la salute dei condomini, da sempre ostili al locale pubblico nell’edificio, ma abbia usato lo strumento sbagliato.

Il ricorso del gestore è accolto perché il provvedimento del settore ambiente del Comune integra lo sviamento denunciato. Durante il sopralluogo i vigili urbani scoprono che la cappa della cucina non è a norma: il funzionario dell’ente dispone la demolizione minacciando l’acquisizione al patrimonio dell’amministrazione in caso d’inottemperanza; misura, questa, che i giudici reputano «sproporzionata».

Il punto è che l’impianto di trattamento di fumi e odori deve ritenersi un volume tecnico, quindi un’opera priva di un’autonoma rilevanza dal punto di vista urbanistico e funzionale: il comune ne ingiunge la rimozione senza motivare la palese evidenza del manufatto rispetto alla costruzione e alla sagoma dell’immobile.

Presunzione confermata. L’amministrazione locale, poi, ben può autorizzare la canna fumaria del ristorante nel cortile dell’edificio anche se il condominio non ha dato il suo consenso all’opera o addirittura l’ha negato. Ciò perché, evidenzia la sentenza 648/17 del Tar Marche, il proprietario esclusivo dell’unità immobiliare ha facoltà di collocare un manufatto nell’area comune a patto che l’installazione non pregiudichi il pari diritto degli altri condomini: in tal caso ha titolo per ottenere la concessione edilizia.

Bocciato il ricorso del vicino che non riesce a bloccare l’intervento al servizio del locale pubblico assentito dallo sportello unico per le attività produttive dopo il parere favorevole dell’ufficio per lo sviluppo urbano sostenibile del Comune. E attenzione: il fatto che il ricorrente non abbia partecipato senza opporsi all’assemblea condominiale che ha dato via libera al progetto non può essere considerato indice di acquiescenza alla realizzazione dell’opera.

Il punto è che il placet del condominio non serve se la canna fumaria rispetta le norme sulle parti comuni del fabbricato.

Spetta al vicino provare che il cortile non sarebbe di proprietà comune. E certo non basta dedurre che l’area non è menzionata nel contratto di compravendita dell’immobile per superare la presunzione di condominialità ex articolo 1117 c.c.: la superficie risulta messa al servizio di tutti. Insomma, l’assenza di comunione non può ritenersi dimostrata. La circostanza che il titolare della licenza commerciale sia il gestore del ristorante, e dunque il locatario dell’immobile e non il proprietario, non preclude l’installazione del manufatto: l’istanza all’ente, d’altronde, risulta presentata da entrambi i soggetti.

Immissioni a rischio. Oltre che per i locali la canna fumaria è un problema anche per le abitazioni. Il Comune non può autorizzare il condotto del condominio installato troppo in basso perché c’è il rischio che i fumi entrino negli appartamenti vicini. Quando l’edificio «incriminato» ha un numero di piano inferiori rispetto ai fabbricati contigui, osserva la sentenza 7862/17 del Tar Lazio, i fumaioli devono essere prolungati a un’altezza sufficiente in modo da non creare incomodo ai confinanti.

Accolto il ricorso dei residenti, che soltanto grazie all’accesso agli atti in comune hanno scoperto che l’amministrazione ha dato il visto di conformità ai lavori d’installazione della conduttura.

Il fatto è che i fumi della caldaia condominiale fuoriescono in strada a soli due metri e mezzo rispetto a palazzine di quattro piani oltre attico e superattico. Il tutto benché l’articolo 17 bis del decreto legge 63/2013 abbia modificato l’articolo 5 del dpr 412/93 prescrivendo che tutti i nuovi impianti termici «devono essere collegati ad appositi camini, canne fumarie o sistemi di evacuazione dei prodotti della combustione, con sbocco sopra il tetto dell’edificio alla quota prescritta dalla regolamentazione tecnica vigente». E la ratio dello stesso regolamento comunale di igiene è evitare immissioni nocive o che danno disturbo a terzi.

fonte italiaoggi